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IL VIAGGIO
CAPITOLO 1
Il brontolio lontano di un tuono interruppe i miei pensieri. Mi
fermai vicino al muro prima di scavalcarlo e osservai il cielo.
Mi era sembrato di udire un suono strano, un lamento prolungato
che aveva seguito il rumore cupo e si era poi spento nel silenzio
della campagna. Forse era stato frutto della mia inquietudine
oppure un presagio che avrebbe dovuto convincermi a rimandare
la mia ricerca ad un periodo più propizio. Pensai di tornare
indietro, ma una strana sensazione ed il desiderio di non cedere
alla paura che mi aveva assalito, mi resero più temerario.
Saltai il muro e continuai a camminare sull’erba bagnata
della campagna, che in inverno raccoglie l’umidità
della notte per ridarla all’aria, quando il sole la riscalda
di nuovo.
Avevo cominciato da due settimane il mio peregrinare per le colline
e le cave che circondano Ianuneti. Non avevo una meta precisa;
ero alla ricerca di una soluzione ad un mistero che avrebbe dovuto
svelarsi al termine della mia fatica fisica. Avevo scelto una
campagna a caso come punto di partenza e da lì proseguivo
in linea retta, senza curarmi delle difficoltà che le discese
e le salite dei dirupi presentavano. Quel giorno il mio stato
ansioso mi spingeva ad essere più imprudente del solito;
uno strano presentimento mi faceva percorrere una via più
impervia. In certi periodi della nostra vita percepiamo un malessere
interiore, che vorremmo giustificare con ciò che accade
attorno a noi o come il risultato di un malanno fisico, invece
è causato da un’inquietudine esistenziale o forse
da un richiamo inconscio che dirige le nostre azioni verso una
finalità misteriosa.
Ogni volta che avvertivo tale sensazione sentivo che la testa
si svuotava di pensieri e mi sembrava di perdere il contatto con
la realtà, di entrare in un mondo surreale dove le leggi
fisiche erano sovvertite. Persino la gravità mi sembrava
inesistente e avevo l’impressione che avrei potuto volare.
Ma il momento non era ancora giunto e lo stimolo si trasformava
invece in attesa inquieta. Quando l’ansia diventava insopportabile,
mi avviavo in macchina verso la collina che sovrastava
la città, mi
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fermavo al limite, dove toccava il cielo, tiravo un
gran respiro per liberarmi del peso che mi attanagliava il petto
e meditavo per qualche minuto. Quella breve sosta era diventata
un rito che mi permetteva di diminuire la tensione. Osservavo
le colline che si perdevano nella nebbiolina della distanza, all’orizzonte,
fino a confondersi col cielo. All’est il mare era una sottile
striscia blu. Le striature grigie delle cave disegnavano delle
forme astratte; partivano dal livello delle campagne e sprofondavano
poi in abissi profondi, traccia degli avvenimenti apocalittici
che avevano modellato quella terra. I muri di pietra erano invece
segni geometrici di quadrati, rettangoli e altre forme; marcavano
il limite delle proprietà e tutelavano il diritto di coltivare
il lembo di terra racchiuso. Quei muri sembravano essere le testimonianze
che l’uomo aveva lasciato col sudore, per ottenere da quella
terra arida e cosparsa di rocce, “la terra da cui era stato
tratto”, il nutrimento necessario alla sua sopravvivenza.
Più avanti, ad un centinaio di metri, sulla destra, si
apriva una strada di campagna, larga quel tanto da lasciar passare
la mia utilitaria, il cui fondo strisciava a volte sulle sporgenze
delle rocce disseminate su tutto il percorso. Al termine c’era
un cancello di ferro. Parcheggiavo la macchina sullo spiazzo antistante,
raccoglievo un bastone nascosto dietro il muretto che sorreggeva
lo stipite e mi avventuravo in quella che doveva essere la mia
passeggiata-rivelazione. Il bastone era ben bilanciato e liscio,
un ramo di ulivo lungo quasi un metro e mezzo; sembrava un giavellotto.
Mi aiutavo con quello durante le discese e le salite più
ripide, ma soprattutto era per me come un’arma e mi faceva
sentire più sicuro. Anche questo era un segno dell’insicurezza
che si era insinuata nei miei pensieri; non avevo certo bisogno
di difendermi, il pericolo era solo una sensazione di precarietà
che avvertivo sempre più nettamente.
I motivi che mi spingevano ad affrontare quelle faticose escursioni,
col bello ed il cattivo tempo, hanno un’importanza primordiale
per la mia storia e mi sembra necessario accennarli per una riflessione
che potrebbe dare un pò di logica e verosimiglianza a ciò
che mi accingo a narrare: una storia davvero straordinaria, che
potrebbe sembrare surreale, ma che invece è vera.
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Un pensiero mi tormentava dopo che Giorgio mi
aveva parlato della sua malattia, e volevo trovare una spiegazione
razionale che mi permettesse di capire il mistero che aveva fatto
nascere.
Tutto era cominciato il giorno in cui lo avevo incontrato. Giorgio
era un professore di latino e greco in pensione. Stavamo seduti
accanto, per caso o per fatalità, durante un concerto di
musica classica. Avevamo scambiato qualche parola durante l’intermezzo
e il suo modo di esprimersi, la gestualità, le sue considerazioni,
mi fecero pensare a Giovanni, un caro amico morto l’anno
prima per un melanoma, che era poi diventato cancro al cervello.
Alla fine del concerto lo salutai distrattamente con il nome del
mio amico e lui mi corresse sorridendo.
Giovanni aveva lottato la sua ultima battaglia in un letto di
ospedale. Prima di morire mi aveva raccomandato di terminare il
libro su cui stava lavorando, come per lasciare un segno che testimoniasse
la sua esperienza sulla terra. Aveva custodito gelosamente le
fotografie che aveva fatto da giovane, durante la seconda guerra
mondiale. Me le aveva mostrate come se fossero degli oggetti preziosi.
Era un modo insolito di rappresentare gli orrori della guerra,
con immagini serene, in contrasto con quello che succedeva attorno.
Narravano un periodo difficile della sua gioventù, senza
una cronologia precisa: una successione di emozioni espresse nei
contrasti di luci e ombre delle fotografie, tutte in bianco e
nero. Si percepiva la desolazione della guerra, che lui aveva
vissuto in parte nella prigione di una caserma delle SS, ed il
desiderio di libertà, che riusciva ad ottenere scalando
le montagne assieme alla sua amica Rosa. Aveva poi girato il mondo,
spinto da un’insaziabile sete di conoscere luoghi e civiltà
diverse, forse alla ricerca di una terra che ignorasse la guerra.
Io avevo scritto qualche frase sotto le foto e lui ne era stato
contento. Per completare il suo racconto voleva metterne alcune
dei campi di concentramento nazisti, che avrebbe voluto visitare
ben presto. Invece la morte aveva lasciato in sospeso la sua opera,
almeno fino a quando… Giorgio arrivò sulla mia strada.
Qualche settimana dopo il concerto, mentre ero in macchina, lo
rividi ad una fermata dell’autobus. Lo salutai con la mano
e gli
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parte della vegetazione della campagna già povera. Sembravano
dei fantasmi contorti. Quelli sulle alture più alte e
lontane assomigliavano a delle minacciose sagome umane. Uno
in particolare attirò la mia attenzione: mi sembrò
di notare un movimento del braccio o quello che sembrava un
moncherino annerito. Incuriosito seguii con lo sguardo la direzione
indicata. Vi indovinai un altro burrone e poi la costa opposta,
lontana e più alta delle altre. Dietro l’orizzonte
un bagliore rischiarava una parte del cielo come se un fuoco
fosse stato acceso in fondo al burrone. Era un invito? Un richiamo?
Un’illusione oppure il frutto del desiderio?
La cava doveva essere più profonda delle altre, e per
arrivare al fondo ci sarebbe voluta almeno mezz’ora. Mi
avviai in quella direzione spinto da un’attrazione cui
non potevo o non volevo sottrarmi. Intuivo che là avrei
trovato la risposta alle mie domande.
Mentre cercavo di saltare un muro, il ramo di un rovo si attaccò
con le sue spine aguzze al mio pantalone, come se volesse impedirmi
di continuare. Mi liberai a fatica graffiandomi le mani, ma
invece di ascoltare il suggerimento, come avrei fatto in occasioni
più normali, proseguii a passo svelto ed arrivai sul
bordo dell’altra cava. Un filo spinato, a qualche metro
dall’estremità del terreno pianeggiante, impediva
il passaggio agli animali. Con gran cura ed aiutandomi col bastone,
attraversai l’ostacolo e mi ritrovai sull’orlo del
precipizio. Da lì si poteva vedere un grande spazio erboso
ed una fila di querce che lo limitavano dove la parete opposta
si ergeva in verticale. Alcune avevano perduto le foglie ed
i rami, altre erano state risparmiate dal fuoco.
Proprio in mezzo al prato c’era un albero immenso e solitario,
intatto. Il fuoco non lo aveva nemmeno sfiorato. Mentre restavo
immobile ad osservarlo, soggiogato dalla sua maestosa apparenza,
un sospetto strano mi rese curioso ed euforico: quella quercia
era uguale a quella che avevo visto nella foresta di Sherwood,
in Inghilterra! Non avevo alcun dubbio, mi aveva impressionato
allora e mi ipnotizzava adesso. Il tronco sembrava attaccato
alla terra con radici a zampa di elefante, si ergeva enorme
all’inizio e si divideva un pò più in alto
in tre
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giganteschi rami che, paralleli al suolo per qualche metro,
si alzavano poi dolcemente fino a diventare verticali, a sorreggere
la chioma folta e verde. Avvertivo la stessa inquietudine che
mi aveva invaso quando mi ero avvicinato alla quercia nella
foresta di Sherwood, ed il desiderio di provare l’emozione
che avevo provato allora, al tocco della corteccia, aveva fece
nascere in me un’attrazione fatale. Esaminai la rupe su
cui mi trovavo e vi cercai un sentiero o degli anfratti che
mi permettessero di scendere al fondo per raggiungere la quercia.
Era questa che mi aveva attirato, come i buchi neri dello spazio
attirano tutti gli oggetti che si trovano sotto la loro sfera
gravitazionale?
Il desiderio di toccarne le foglie, il tronco ed i rami, era
più forte della paura della discesa; la mia volontà
era diventata prigioniera del magnetismo che mi attirava verso
quell’albero. Mi sono aggrappato ad una radice che sporgeva
dalla roccia e con grande cautela ho cominciato la discesa,
incurante del dolore alle mani e delle ferite che le pietre
aguzze ed i rovi, cui mi appigliavo, causavano alla mia pelle.
Ebbi l’impressione di essere sospeso nel vuoto, di poter
volare. Col piede cercavo un appiglio, un anfratto, un cespuglio,
una sporgenza; le mani graffiate sanguinavano incollate alla
parete. Lentamente mi avvicinavo al fondo.
Il rimbombo di un tuono, e l’eco minaccioso ripetuto dalle
pareti delle cave, mi scosse dal torpore che mi aveva invaso.
Mi chiesi che cosa facevo su quella rupe, aggrappato come uno
spericolato scalatore in bilico sul precipizio. Provavo una
sensazione di leggerezza che era dettata dall’euforia
della scoperta, ma non avrei potuto vincere la gravità
e volare come un uccello. Una paura improvvisa mi assalì;
non avevo però alcuna alternativa, ero troppo lontano
dalla sommità. Un attacco di panico era imminente e per
evitarlo, mi voltai verso la quercia. Mi sembrò ancora
più maestosa: le foglie erano agitate da un leggero vento
che trasportava qualche goccia di pioggia, il tronco era enorme
e aveva delle scanalature che testimoniavano le ferite inferte
dai fulmini, i rami erano ampi e voluminosi, aveva una cavità
alla base. Ebbi la certezza che mi stava aspettando!
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Dopo un tempo che mi sembrò interminabile, raggiunsi
infine il fondo. Avevo il viso bagnato dalla pioggerellina che
era cominciato a cadere ed i vestiti umidi. Ma che importanza
poteva avere quel piccolo sconforto? Davanti a me c’era
la quercia sacra ai Druidi, o meglio, una simile a quella famosa.
Che ce ne fossero due, complementari? In vite parallele? Come
di Giovanni e Giorgio? Era tutta un’illusione? Una creazione
della mia fantasia?
I tuoni si erano fatti più vicini e minacciosi, la pioggia
cadeva sempre più abbondante. Incurante della minaccia
che avrei dovuto prevedere, cominciai a correre verso l’albero
e durante la corsa mi parve di udire qualcuno gridare il mio
nome. Arrivai col fiato in gola. La pioggia era ormai acquazzone
e nascondeva dietro il velo liquido la parete da cui ero disceso.
Cercai di scoprire chi mi aveva chiamato, ma la cortina d’acqua
era troppo opaca.
Al riparo sotto il gran tetto verde, mi sembrò di essere
protetto, e quando mi appoggiai al tronco, sentii una strana
energia diffondersi in tutto il corpo. Era come se avvertissi
una trasformazione imminente: diventavo parte della quercia
e lei parte di me. Osservai i rami staccarsi dal tronco e poi
innalzarsi verso le nuvole. In uno di essi, in alto, mi parve
di scorgere un pò di vischio. La coincidenza era troppo
palese adesso: il vischio sacro ai Druidi!, quello che i sacerdoti
cercavano per i loro riti sulle querce ritenute sacre, e che
racchiudevano le anime dei morti. Avevano anche un’apposita
falce d’oro per tagliarlo. I riti sono un elemento essenziale
per una fede, attirano i seguaci e più sono misteriosi
e magici, più affascinano la loro mente. Sentivo che
avevo anch’io bisogno di quel rito e decisi di cogliere
il vischio; avrebbe suggerito certamente una risposta ai miei
quesiti, come aveva fatto con i Druidi. Ma come raggiungerlo?
Era troppo lontano e non avevo la possibilità né
l’agilità di salire sul tronco fino al punto in
cui si trovava. Un bastone mi avrebbe permesso di staccarlo,
ma con tanta pioggia dove potevo trovarne uno lungo abbastanza?
E dov’era finito il mio? L’avevo smarrito lungo
la discesa.
L’acquazzone si trasformò in tempesta. I tuoni
adesso esplodevano subito dopo ai lampi e mi assordavano con
il loro
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suono cupo. Guizzi di luce bianca sembravano traversare le
nuvole e disegnavano fessure sul grigio della pioggia che cadeva
a catinelle.
Mi rifugiai nella cavità del tronco, che poteva appena
contenere il mio corpo, come per proteggermi dall’improvvisa
furia che si era abbattuta su quel pezzo di terra al fondo della
cava. Era come se il furore della natura si fosse concentrato
attorno a quella quercia e a me. Quella doveva essere un’ulteriore
premonizione o il preludio al mio viaggio, ma neanche con i
miei strani poteri extra-sensoriali riuscivo a capire il susseguirsi
degli avvenimenti che si accavallavano nella mia mente: le visioni
del passato, Giovanni e Giorgio, le due querce simili, l’improvvisa
furia della natura.
Non avevo paura dei temporali, i tuoni e i lampi, anzi, mi affascinavano;
ora però avevo l’impressione che qualcosa stava
per accadere, avvertivo un pericolo imminente.
Mi affacciai dal mio nascondiglio e osservai il vischio, che
mi sembrò stranamente asciutto. Mi avvicinai ad un ramo
che a causa delle foglie gocciolanti ed il vento forte, ondeggiava
abbassandosi. Incurante del pericolo di restare sotto gli alberi
durante i temporali, cominciai a saltare per cercare di afferrarlo,
fin quando vi riuscii. Non riesco a spiegarmi dove trovai la
forza necessaria per issarmi su quello, né quanto tempo
ci impiegai. L’unica cosa che ricordo chiaramente è
l’attrazione che la quercia prima, il vischio dopo, avevano
esercitato sui miei pensieri e sulla mia volontà. Grondante
di pioggia, che continuava a cadere con violenza, rimasi incollato
per un pò a quel ramo. Durante un momento di relativa
calma mi sembrò di udire ancora la voce che mi chiamava,
mista al rumore della pioggia. Doveva essere il vento che soffiava
forte; chi poteva esserci in una giornataccia come quella e
soprattutto in fondo a quel burrone? Cominciai a strisciare
lentamente verso il tronco e mi sembrò che l’emozione
provata a Sherwood, quella di diventare parte della quercia,
come lo erano le foglie, i rami ed il tronco, era diventata
più forte. Un lampo più vicino degli altri fece
brillare le foglie bagnate, ed il tuono che scoppiò subito
dopo mi fece pensare ad un enorme cannone che sparava a qualche
passo di distanza. Nel silenzio che segue i rumori
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assordanti, sentii la voce più distinta gridare delle
frasi che mi raggiungevano a stento e di cui non riuscivo ad
afferrare il senso. Che fosse il mio subcosciente ad avvertirmi
del pericolo imminente? Oppure le ultime premonizioni della
ragione che voleva impedirmi di iniziare il viaggio? Senza curarmi
del richiamo continuai a strisciare, arrivai vicino al tronco,
mi issai sul ramo ed allungai la mano per afferrare il vischio.
Proprio nell’istante in cui lo toccai avvenne la trasformazione,
se così si può definire: un fulmine ci colpì
con tutta la sua violenza.
Dapprima rimasi immobile e stupefatto, un’energia enorme
attraversava il mio corpo e m’incollava al tronco, poi
mi sono visto esplodere come quei fuochi d’artificio che,
arrivati al loro apogeo, si aprono ad ombrello con scie di fuoco
e puntini colorati. Non so dire se persi conoscenza, se mi bruciai,
se il mio corpo si era disintegrato; non vidi il tunnel di luce
che quelli che arrivano vicino alla morte e ritornano dalla
loro esperienza poi, raccontano. Sentivo invece che il risultato
di tutta l’energia che mi aveva attraversato era una liberazione
dalla gravità; mi pareva di volare senza il corpo, ma
con il processo del pensiero tutto intatto. Riuscivo a percepire
le cose senza i meccanismi nervosi.
Mi allontanai dalla quercia, traversai l’atmosfera, raggiunsi
lo spazio siderale e da lì osservai la terra diventare
una palla azzurra, il sole scomparire, la galassia dissolversi.
Mi spaventai, ma visto che non sentivo neanche il cuore, non
posso dire che il suo battito fosse diventato più veloce.
Mi pareva ormai chiaro che tutto quello che avevo dovuto fare
negli ultimi giorni era una specie di preparazione al viaggio
che dovevo intraprendere, dopo la mia disintegrazione corporale.
Non posso neanche dire se tutto successe in una frazione di
secondo oppure in un intervallo lungo, perché anche il
tempo mi sembrò inesistente.
Per evitare di fossilizzare i miei pensieri in quell’attesa
incolore, mi abbandonai alle sensazioni del momento, senza opporre
resistenza, come usavo fare durante la mia vita terrena nei
luoghi delle visioni, e cercai di ascoltare i messaggi che le
cose mi suggerivano.
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Non potevo vedere quello che mi circondava, gli occhi miei
non esistevano più, ma avevo la possibilità di
percepire tutto ciò che accadeva, di immaginare luci,
forme e colori.
Eravamo attirati da una forza misteriosa verso un punto e la
velocità del volo aumentava mentre seguivamo un tracciato
a spirale che ci avvicinava verso la destinazione, come fa l’acqua
nel lavandino. Ho usato il plurale perché ero diventato
cosciente della presenza di altri esseri, non due o cento o
mille, ma in numero infinito.
Non c’era più in me curiosità o paura, solo
il più completo abbandono a quella che sembrava essere
una legge naturale. Pensai alla migrazione degli animali, alla
misteriosa forza che li spinge verso un punto ben preciso, il
posto dove cercano l’unione perduta quando sono diventati
unici, quando cioè si sono staccati dall’involucro
materno, che li circondava prima della loro nascita. Questo
posso dirlo con certezza, ora che ho trasceso lo spazio ed il
tempo durante il viaggio.
Non si sentiva alcun rumore, come potevo udirlo se le mie orecchie
non esistevano più? Avevo però l’impressione
che c’era come una vibrazione, un battito regolare di
un cuore unico, e quel ritmo dava un senso alla mia traiettoria
e ai miei pensieri. Mi chiesi se anche le altre particelle di
energia percepivano la stessa sensazione, ma in quel momento
non mi interessava comunicare con loro, d’altronde non
avrei nemmeno saputo come fare.
Più la velocità aumentava, più l’esaltazione
della corsa eccitava i miei pensieri. Acquistavo la coscienza
di essere attirato verso un punto, che prima mi era sembrato
un enorme buco nero, quelli che inghiottono tutte le energie,
anche la luce, poi mi accorsi che era davvero un punto unico.
L’ansia che si annidava ancora nei miei pensieri, mi fece
dubitare sulla possibilità di arrivare con tutti gli
altri in quel minuscolo punto. Ragionavo ancora con i criteri
materiali che collegano lo spazio al volume ed al tempo. Allora
non avevo ben capito che ero al di fuori del tempo e tutte le
leggi fisiche che mi avevano costretto in un corpo, con un peso
ed una vita limitata, non esistevano più. Cercai di utilizzare
la nozione che avevo del tempo, anche se questo mi avesse costretto
a calcolarlo in milioni di anni, ma non avevo alcun punto di
riferimento: dove ero cominciato? Quando?
La quercia era solo un aggancio ad una realtà ormai inesistente.
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